mercoledì 28 novembre 2012

Le Fatine di Ghiaccio, una vecchia storia.

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Le fatine di ghiaccio sono leggere e delicate... quasi come gli angeli... 
Sono nate in una serata fredda d'inverno, mentre i genitori facevano la spesa e noi eravamo dentro la macchina. 
Sono nate perchè Thomas piangeva e Luca voleva scendere, sono nate perchè Francesco scriveva sui finestrini... sono nate perchè Cecilia non ne poteva più di Cenerentola e di Peter Pan, le trovava noiose... sono nate per loro e a loro saranno legate, per sempre!


A Francesco, a Luca, Thomas e Cecilia (anche a Camilla che allora non era ancora nata!) i miei meravigliosi nipotini.

In un regno che nessuno sa localizzare, lontano oppure vicinissimo, coperto da una coltre di bianca neve perenne vive un popolo meraviglioso, quello delle fatine di ghiaccio.
Questi piccoli spiriti nascono insieme con ogni essere vivente della terra, non importa se si tratta di un albero, di un fiore appena sbocciato, di un bruco che diventa farfalla, di un leone nella savana, di un aquilotto in cima ad una montagna o di un pesciolino nel profondo del mare più blu…non importa. Ognuno ha la sua fatina di ghiaccio.
Queste piccole e meravigliose creature sono grandi quanto una farfalla, sono alate, hanno lunghissimi capelli argentei formati dai raggi che la luna e le stelle del cielo gentilmente regalano loro, sono bellissime con i loro abitini di ghiaccio e hanno un profumo inebriante, gentile e delicato, zuccherino che ti riempie naso e cuore.
Anche il loro carattere è gentile e predisposto alla serenità.
Quando volano, le fatine, riempiono l'aria tutto intorno di uno scampanellio allegro, melodioso che fa venir voglia di sorridere anche se è il giorno più triste della tua vita. C'è chi crede che quando nevica le fatine di ghiaccio si riuniscono e confondendosi tra i fiocchi ballano allegre.
Sebbene non ci lascino mai da soli, è raro che le fatine si facciano vedere dalle creature che proteggono. Hanno paura forse o sono troppo timide e riservate per rendere pubblica la loro esistenza!
Ho detto è raro, ma non impossibile: quando la creatura che sorvegliano è talmente triste da pensare che la sua vita non ha poi molto senso, allora la fatina di ghiaccio responsabile prende forma umana e cerca di fargli tornare il sorriso.
Nella forma mortale, tuttavia, le fatine non perdono il loro profumo né il loro scampanellio, ve lo assicuro perché in un giorno in cui ero profondamente sconfortato la mia fatina di ghiaccio è salita sul mio taxi e mi ha dato una buona ragione per ricostruire la mia vita. Il nome della mia fatina è Christal.  La vostra, bambini, come si chiama?


Tanti tantissimi bambini di tutto il mondo, da quelli molto viziati ma tristi perché i genitori troppo impegnati con il lavoro li lasciano a casa da soli a quelli dei paesi più poveri costretti a lavorare, hanno l'abitudine di regalare un sorriso, la sera, dai loro lettini, alle loro fatine di ghiaccio che in cambio sono solite suonare loro con i campanelli, una lieta ninna nanna dall'aroma zuccherina…


 

App-ing

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Tutto quello che sapeva era riassunto sulla cartina che teneva in mano. Tutto quello che sapeva di lei. Linyi street 33 lane, numero 7, attico.
Salendo la scala mobile della metro continuava a guardarla, la sua cartina, e a chiedersi cosa sarebbe successo una volta arrivato, cosa avrebbe pensato lei vedendolo e che impressione avrebbe avuto lui, di lei.

Si ferma un attimo, al vetro dell'uscita per specchiarsi, sistemare i capelli e gli occhiali da sole. Sì perché oggi c'è il sole a Taipei, un sole caldo che fa sembrare giugno quando è febbraio ed è immerso in un morbido liquido azzurro splendente, una di quelle giornate che si vedono raramente .... 

Magari la invito a fare una passeggiata, magari c'è un parco qui vicino e possiamo chiacchierare e passeggiate... 

Chissà com'è il suono della sua voce e chissà che profumo usa, pensa lui, intanto entra al seven. Cosa berrà lei al mattino? Caffè nero americano? Cappuccino? Caramel macchiato che tanto piaceva alla sua ex? Caldo o freddo? Con o senza zucchero?

Si accorge, d'un tratto, di non conoscerla affatto; si rende conto che nelle lunghe chiacchierate via cellulare non gli ha mai chiesto cosa beva al mattino, per iniziare la giornata. Nel dubbio prende un bicchiere di tutto, tranne caramel macchiato perché non crede possa piacerle, non è smielata come la sua ex, lei. Ha carattere, lo ha capito dal suo modo di scrivere e sopratutto è straniera.
Inizia a temere di essere troppo magro, i jeans si tengono su a malapena sui suoi fianchi sottili; teme che la sciarpa arcobaleno sia troppo colorata... D'un tratto sente che non le piacerà che lei sarà delusa e deciderà di tornare dal suo di ex, quello di cui tanto spesso hanno parlato che vive ancora in città. 

 Tra un pensiero e l'altro, seguendo la cartina, è arrivato sotto casa di lei. 

È stato facile trovarla. Ora tira fuori il telefono e le invia un app, un messaggino via internet. Lei è online. 

Digitazione... "Apro il portone. Mi spiace ma non c'è l'ascensore."

A ogni gradino l'attesa sale impetuosa, a ogni gradino si chiede come andranno le cose... 

Chi l'avrebbe mai detto - pensa mentre stringe la busta con troppi bicchieri di caffè- che quel giorno in metro scuotendo il cellulare avrebbe trovato lei? 

Quella funzione fino al giorno prima non la conosceva nemmeno, gliel'aveva mostrata Dan in discoteca ...

mercoledì 21 novembre 2012

Stazione Centrale, oh Stazione Centrale.

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Napoli, mi dicono, è una città pericolosa. Mentre guardo il paesaggio notturno sfilare fuori dal finestrino di italo –per inciso ho costatato con soddisfazione che finalmente il wifi free a bordo c’è davvero e non è più fastidiosamente “in installazione”- mi chiedo che mai troverò, quanto sarà terribile la Stazione Centrale? Che mai avrà di tanto diverso da Termini, da quella di Milano, di Londra, Francoforte, Parigi … per non parlare di quella di Pechino o di Taipei … una stazione centrale è pur sempre una stazione centrale. Forse nonno è da capire, ci sarà venuto l’ultima volta cinquanta anni fa a Napoli, che ne sa.

Scendo dal treno accompagnata dagli impagabili cordialissimi sorrisisi dei giovanissimi e strafighi – inizio ad avere buone ragioni di credere che siano, in effetti, selezionati di proposito- stuart di bordo e mi guardo intorno.
Un punto a favore di Napoli su Milano è che almeno i primi esseri viventi che incontri arrivando non sono i piccioni.

Ci sono poliziotti discretamente poggiati alle balaustre, persino il pavimento è quello tipico delle stazioni centrali, per non parlare dei negozi, tutto sommato, mi dico, potrei essere ovunque. Ci avete mai pensato? Perché è una cosa su cui ho riflettuto molte volte sia riguardo alle stazioni che riguardo agli aeroporti, davvero sono luoghi di astrazione, è come se fossero, che so io, territori a parte, piccole isole nel bel mezzo –o subito fuori- di una città dotati di meccanismi e persino di un microclima tutti loro. E nelle stazioni i meccanismi sono semplici: negozi per farti perdere tempo, tra cui spiccano le librerie mia dannazione personale, ma anche salvezza se devo passare –come è il caso proprio ora- tre ore aspettando un treno perché sono troppo tirchia per spendere venti euro e anticiparlo di un’ora. La verità è che mi piace stare in questo limbo, perché sono una viaggiatrice nell’animo. Non c’è niente che io possa farci, mi sento a mio agio qui ad aspettare di partire, la bella sensazione dell’adrenalina da viaggio sulla pelle … Ma sto divagando, eravamo all’arrivo a Napoli, o meglio finora eravamo all’arrivo in un posto che potrebbe essere Napoli come quasi ogni altra città del mondo munita di stazione centrale.

La mia missione è quella di trovare un taxi. Dovrebbe essere facile, perché la legge delle stazioni dice a chiare lettere che i taxi sono parcheggiati subito fuori dall’ingresso principale, nella corsia preferenziale –di nuovo, come in aeroporto- e così è. Ma è questo l’attimo in cui mi rendo conto che effettivamente non sono in qualunque altro luogo, ma proprio a Napoli. È inevitabile capirlo. L’omino bassettto, in carne, che gesticola davanti alle file di taxi bianchi allineati impeccabilmente, non mente. Il suo accento non mente, non mente perché gesticola a braccia aperte e indica chi deve salire su quale macchina. «La signoria la voglio io! Signorì, voi venite con me!» una voce si alza dalle retrovie, un vecchietto la cui macchina è allegramente parcheggiata in quarta fila si fa strada. Chissà perché, così, a pelle, ha deciso che debba andare con lui. Lo devo ammettere un mezzo sorriso sotto i baffi me lo strappa, che diamine, sentirsi dare del voi fa un certo effetto, ma mi rendo conto subito che qui è la prassi. Alla fine l’omino direttore dei lavori ha la meglio sulle pretese del vecchietto e io ottengo un taxi senza aspettare mezz’ora.

La seconda prova che sono proprio a Napoli –non che ce ne fosse bisogno dopo questo allegro siparietto iniziale- arriva mentre siamo in macchina.

Il tassista guida come mio zio.

E voi vi chiederete: perché, come guida tuo zio? È uno stile tutto particolare, tanto che ormai in famiglia se si vuole indicare qualcuno che guidi in modo quasi del tutto sconsiderato, che ignori la distanza di sicurezza e si limiti a frenare solo all’ultimo istante possibile quando il muso della sua macchina è già quasi dentro il cofano dell’auto davanti, allora, per comodità si dice: guidi come zio. E hai detto tutto.
Inizialmente, quindi, penso: oh mio dio, questo tassista guida come zio. Sarà una mano santa per il mio stomaco già sottosopra per il treno che ballava particolarmente sui binari, o forse erano i miei occhi a ballare particolarmente sui caratteri cinesi delle slides che stavo tentando di studiare… insomma, pensavo, ingenuamente, che il problema fosse il tassista. Son bastati cinque minuti perché mi venisse il dubbio che più che a Napoli fossi finita in qualche località della Cina. Tutti guidavano come zio. E i clacson, sebbene fosse sera – esattemente come in Cina - venivano usati a mo’ di freccia, per attirare l’attenzione, per sollecitare e tanto altro ancora … la tangenziale è intasata. Ovviamente, chi mi avrebbe creduto se avessi raccontato di una tangenziale scorrevole alle sette e mezza della sera? Risultato? Ci mettiamo un’ora e mezza quasi per un tragitto che a ritorno è stato di mezz’ora nemmeno.
Arrivo all’hotel. Lo stomaco è ancora più sottosopra di quanto pensassi, ma sono soddisfatta di esserci arrivata senza, tutto sommato, aver fatto incidenti, son piccole conquiste. L’hotel, a primo impatto è vecchiotto, ma sicuramente un altro livello rispetto all’unica altra volta in cui ho dormito a Napoli st’estate, in un ostello fatiscente con i ragazzi cinesi … ma ora sono in business trip è un’altra storia. Quanto mi piace questa cosa del viaggiare per lavoro.
L’unica cosa che non mi piace è il mangiare da sola in hotel. O meglio, normalmente mi piace perché anche quello fa molto business woman, ma non sta sera, non in questo albergo in cui al cameriere è appena morto il fratello perciò non riesce a sorridere e sarebbe meglio che non ci provasse nemmeno, perché i tentativi son talmente poco convinti che il fallimento è assicurato a priori. Non in questa sala ristorante in cui su ogni tavolinetto c’è un triste vasetto con due rose giallognole un po’ appassite e in cui essendo ormai le nove, non c’è più nessuno a cena tranne me e un altro malcapitato uomo d’affari.
Insomma, sta sera non mi va di cenare da sola, perché? Boh. Perché è così e basta. Per fortuna ho almeno il telefono, per fortuna posso scrivere e le parole degli altri, in qualche modo, tengono caldo, affievoliscono questa sensazione di solitudine che non mi appartiene. Sarà la stanchezza. Sarà l’idea di dover salire in stanza e studiare le diapositive, sarà la paura della prima vera e propria simultanea cinese in italiano … sì, sarà tutto questo che rende questo risotto agli scampi quasi immangiabile sebbene la polpa sia bianca, delicata, corposa e saporita, persino.
La stanza è dignitosa. Meglio dei corridoi con la moquette. La moquette non mi piace, mi sa di sporco e poi questa, rossastra con fiorellini gialli minuscoli, è strana. Le scarpe sembrano sprofondarci dentro man mano che cammini, è proprio strana. Secondo me sotto ci sono strati su strati sovrapposti negli anni … che immagine raccapricciante. La stanza invece è carina. C’è il parquet a terra, è anonima, non ci sono dettagli che me la faranno rimanere impressa. Shane avrebbe detto che non ha stile, forse avrebbe avuto ragione. Ma fa niente, ci devo solo dormire una notte, in fondo, che vuoi che sia.
Bussano alla porta: servizio in camera. Un bollitore! Che gioia! E persino una bustina di camomilla, in realtà io volevo solo bere acqua calda kaishui per la gola perché ho dimenticato a casa il tè allo zenzero per la voce, non posso mica avere la voce rattrappita domani mattina in simultanea, devo essere impeccabile. Faccio bollire l’acqua, una doccia calda, olio di lavanda che spero mi stordisca a sufficienza, ma no, sono solo illusioni, lo so che l’adrenalina è in accumulo e che niente potrà farmi rilassare o lasciarmi dormire in santa pace.

Non c’è nemmeno la presa della corrente vicino al letto. Penso a te, come posso non farlo? L’uomo che mette il telefono a caricare lontano dal letto per non avere le vibrazioni durante il sonno e perché così, quando la sveglia suona, al mattino, è costretto a svegliarsi perché deve alzarsi e attraversare l’appartamento – a dirla tutta quello in cui vivevamo era talmente piccolo che non ci voleva molto per andare da un’ala all’altra, ma questa è un’altra storia.- Io però non ci sono abituata. Mi mette ansia dover avere il telefono a caricare lontano, ho paura di non sentire la sveglia e poi, se devo guardare l’ora come faccio? Uff. Il risultato del caricamento a distanza è che mi sveglio quattro volte e dato che sono oggettivamente miope come una talpa, sono costretta a infilare gli occhiali, o meglio, a poggiarli approssimativamente sul naso per leggere i numeretti blu scritti in un piccolo led sotto al televisore …

Ore sei e cinquanta. Suona la sveglia e io sono pronta. La mia simultanea mi aspetta.
Solo ora mi son resa conto di aver scritto un altro post che non è un racconto di narrativa, è un frammento di vita vissuta o forse no, forse è una storia inventata perché mi chiedo ancora, ogni momento. se sta succedendo tutto davvero o se mi sveglio di soprassalto uno di questi giorni e mi accorgo che era un sogno, un fantastico sogno.
Per assicurarmi che sia realtà, prima di salire sul treno, vado a comprare un libro ricordo di questo viaggio lampo, di questo ennesimo battesimo … dovrò iniziare con le prime comunioni tra un po’…


 

martedì 6 novembre 2012

De Fiduciae ovvero Dreams come true

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Io scrivo racconti, di solito. Alle volte mi incastro anche in cose che semrbano quasi "romanzi", virgolette d'obbligo. Ma non mi capita quasi mai di sentire il bisogno di scrivere di cose astratte, di concetti, tanto per capirci. Oggi, invece, è quello che voglio fare, oggi voglio parlare di fiducia.

Non so se ne sono in grado, probabilmente no, ma ci provo lo stesso. Perchè alle volte rimango sbalordita, allibita e senza parole di fronte alla dimostrazione di fiducia incontrastata nei miei confronti. Sono abituata a fidarmi di poche persone: famiglia, Amici che si contano sulle dita di una mano, facciamo due, se mettiamo insieme gli Amici e le Famiglie sparse su due continenti diversi. Ma è una fiducia diversa, è una fiducia di parte. 
La famiglia ha fiducia in noi perchè... sì. Perchè che altro può fare? I genitori, i nonni, gli zii, i cugini, i fratelli e le sorelle non posson far altro che credere in noi perchè ci vedono crescere, ci conoscono profondamente, ci vedono come parte integrante della loro vita. 
Gli amici, beh, con gli amici la fiducia si costruisce, giorno per giorno, senza che uno se ne accorga bene alle volte, vai avanti e scopri che di quella persona hai iniziato a fidarti, che puoi dirle/gli qualsiasi cosa, che conserverà i tuoi segreti gelosamente come se fossero i suoi, che si metterà nelle tue scarpe, o nei tuoi panni, a seconda della lingua che parla e che crederà in te e ti sosterrà qualsiasi cosa deciderai di fare.

Ma la fiducia di cui vorrei dire oggi è un'altra. Una fiducia che viene da persone che stimi, che ammiri nel profondo, da persone che hai sempre visto come idoli, come esempi da seguire. Quando una fiducia inconstrata in te e nelle tue capacità viene da persone che hanno inspirato in te il desiderio di diventare quel che stai diventando ... Quando la fiducia viene da persone che sono stati tuoi insegnanti che erano seduti dietro una cattedra universitaria e che tu guardavi, dall'altra parte, dal banchetto o dalla sedia o dalla cabina con aria sognante, perchè speravi, sognavi che un giorno ...

Se parlo di insegnanti e di fiducia non posso non parlare della borsa rossa. La borsa rossa, che in realtà è una cartella, di pelle, semi-rigida, rosso scuro, quasi bordeaux. L'ho vista, me lo ricordo come se fosse oggi, appesa alla sua spalla il giorno del test d'ingresso, quando le ho parlato la prima volta in preda al panico perchè non riuscivo, in nessun modo, per quanto mi sforzassi a ricordarmi come diamine si scrivesse 孩子的孩, un carattere semplice, uno di quelli che studi al primo anno della triennale ... e da quel giorno ho deciso, stabilito che quella era la borsa dell'interprete. Non potevo fare l'interprete se non avevo quella borsa e ora ce l'ho. Dentro il mio armadio. Regalo di laurea. Uguale alla sua. E ogni volta che la uso, solo per andare a lavoro, intendiamoci, mi sento piccola piccola, ma poi la guardo e dico: "devo per forza fare un buon lavoro, ho la borsa dell'interprete."

La verità è che non ho grande stima né fiducia in me stessa, la verità è che per quanto lo desiderassi con tutta me stessa non credevo di riuscire ad arrivarci sul serio. La verità è che sapere di avere la fiducia, forse persino la stima di persone che stimo così profondamente, che sono i miei eroi e le mie eroine (in tutti i sensi alle volte, dato che alcuni tipi di conversazioni con suddette persone veramente, mi danno scariche di adrenalina incredibili) mi fa sentire una persona migliore, mi spinge a fare meglio, mi fa sentire che forse è proprio vero, che se credi in qualcosa fermamente poi.. "realtà diverrà."

E concludo questo post anomalo ma di cui avevo bisogno per sentirmi meglio, per razionalizzare questo dono immenso che ricevo e che spero di non sprecare mai, con una citazione di Walt Disney. Parole che erano proiettate su un muro bianco, scritte in rosso e tradotte anche in cinese alla mostra sui disegni Disney che io e Céline abbiamo visto, con la scusa della sua studentessa di francese quindicenne, a Taipei lo scorso dicembre...

“Somehow I can't believe that there are any heights that can't be scaled by a man who knows the secrets of making dreams come true. This special secret, it seems to me, can be summarized in four Cs. They are curiosity, confidence, courage, and constancy, and the greatest of all is confidence. When you believe in a thing, believe in it all the way, implicitly and unquestionable.”