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Napoli, mi dicono, è una città
pericolosa. Mentre guardo il paesaggio notturno sfilare fuori dal finestrino di
italo –per inciso ho costatato con
soddisfazione che finalmente il wifi free
a bordo c’è davvero e non è più fastidiosamente “in installazione”- mi chiedo
che mai troverò, quanto sarà terribile la Stazione Centrale? Che mai avrà di
tanto diverso da Termini, da quella di Milano, di Londra, Francoforte, Parigi …
per non parlare di quella di Pechino o di Taipei … una stazione centrale è pur
sempre una stazione centrale. Forse nonno è da capire, ci sarà venuto l’ultima
volta cinquanta anni fa a Napoli, che ne sa.
Scendo dal treno accompagnata
dagli impagabili cordialissimi sorrisisi dei giovanissimi e strafighi – inizio
ad avere buone ragioni di credere che siano, in effetti, selezionati di
proposito- stuart di bordo e mi guardo intorno.
Un punto a favore di Napoli su
Milano è che almeno i primi esseri viventi che incontri arrivando non sono i
piccioni.
Ci sono poliziotti discretamente
poggiati alle balaustre, persino il pavimento è quello tipico delle stazioni
centrali, per non parlare dei negozi, tutto sommato, mi dico, potrei essere
ovunque. Ci avete mai pensato? Perché è una cosa su cui ho riflettuto molte
volte sia riguardo alle
stazioni che riguardo agli
aeroporti, davvero sono luoghi di astrazione, è come se fossero, che so io,
territori a parte, piccole isole nel bel mezzo –o subito fuori- di una città
dotati di meccanismi e persino di un microclima tutti loro. E nelle stazioni i
meccanismi sono semplici: negozi per farti perdere tempo, tra cui spiccano le
librerie mia dannazione personale, ma anche salvezza se devo passare –come è il
caso proprio ora- tre ore aspettando un treno perché sono troppo tirchia per
spendere venti euro e anticiparlo di un’ora. La verità è che mi piace stare in
questo limbo, perché sono una viaggiatrice nell’animo. Non c’è niente che io
possa farci, mi sento a mio agio qui ad aspettare di partire, la bella
sensazione dell’adrenalina da viaggio sulla pelle … Ma sto divagando, eravamo
all’arrivo a Napoli, o meglio finora eravamo all’arrivo in un posto che
potrebbe essere Napoli come quasi ogni altra città del mondo munita di stazione
centrale.
La mia missione è quella di
trovare un taxi. Dovrebbe essere facile, perché la legge delle stazioni dice a
chiare lettere che i taxi sono parcheggiati subito fuori dall’ingresso
principale, nella corsia preferenziale –di nuovo, come in aeroporto- e così è.
Ma è questo l’attimo in cui mi rendo conto che effettivamente non sono in
qualunque altro luogo, ma proprio a Napoli. È inevitabile capirlo. L’omino
bassettto, in carne, che gesticola davanti alle file di taxi bianchi allineati
impeccabilmente,
non mente. Il suo accento non mente, non mente perché gesticola a braccia
aperte e indica chi deve
salire su quale macchina. «La signoria la voglio io! Signorì, voi venite con
me!» una voce si alza dalle retrovie, un vecchietto la cui macchina è
allegramente parcheggiata in quarta fila si fa strada. Chissà perché, così, a
pelle, ha deciso che debba andare con lui. Lo devo ammettere un mezzo sorriso
sotto i baffi me lo strappa, che diamine, sentirsi dare del voi fa un certo
effetto, ma mi rendo conto subito che qui è la prassi. Alla fine l’omino
direttore dei lavori ha la meglio sulle pretese del vecchietto e io ottengo un
taxi senza aspettare mezz’ora.
La seconda prova che sono proprio
a Napoli –non che ce ne fosse bisogno dopo questo allegro siparietto iniziale-
arriva mentre siamo in macchina.
Il tassista guida come mio zio.
E voi vi chiederete: perché, come
guida tuo zio? È uno stile tutto particolare, tanto che ormai in famiglia se si
vuole indicare qualcuno che guidi in modo quasi del tutto sconsiderato, che
ignori la distanza di sicurezza e si limiti a frenare solo all’ultimo istante
possibile quando il muso della sua macchina è già quasi dentro il cofano
dell’auto davanti, allora, per comodità si dice: guidi come zio. E hai detto
tutto.
Inizialmente, quindi, penso: oh
mio dio, questo tassista guida come zio. Sarà una mano santa per il mio stomaco
già sottosopra per il treno che ballava particolarmente sui binari, o forse
erano i miei occhi a ballare particolarmente sui caratteri cinesi delle slides che stavo tentando di studiare… insomma, pensavo, ingenuamente,
che il problema fosse il tassista. Son bastati cinque minuti perché mi venisse
il dubbio che più che a Napoli fossi finita in qualche località della Cina.
Tutti guidavano come zio. E i clacson, sebbene fosse sera – esattemente come in Cina - venivano usati a mo’ di
freccia, per attirare l’attenzione, per sollecitare e tanto altro ancora … la
tangenziale è intasata. Ovviamente, chi mi avrebbe creduto se avessi raccontato
di una tangenziale scorrevole alle sette e mezza della sera? Risultato? Ci
mettiamo un’ora e mezza quasi per un tragitto che a ritorno è stato di mezz’ora
nemmeno.
Arrivo all’hotel. Lo stomaco è
ancora più sottosopra di quanto pensassi, ma sono soddisfatta di esserci
arrivata senza, tutto sommato, aver fatto incidenti, son piccole conquiste.
L’hotel, a primo impatto è vecchiotto, ma sicuramente un altro livello rispetto
all’unica altra volta in cui ho dormito a Napoli st’estate, in un ostello
fatiscente con i ragazzi cinesi … ma ora sono in business trip è un’altra storia. Quanto mi piace questa cosa del
viaggiare per lavoro.
L’unica cosa che non mi piace è
il mangiare da sola in hotel. O meglio, normalmente mi piace perché anche
quello fa molto business woman, ma
non sta sera, non in questo albergo in cui al cameriere è appena morto il
fratello perciò non riesce a sorridere e sarebbe meglio che non ci provasse
nemmeno, perché i
tentativi son talmente poco convinti che il fallimento è assicurato a priori.
Non in questa sala ristorante in cui su ogni tavolinetto c’è un triste vasetto
con due rose giallognole un po’ appassite e in cui essendo ormai le nove, non
c’è più nessuno a cena tranne me e un altro malcapitato uomo d’affari.
Insomma, sta sera non mi va di
cenare da sola, perché? Boh. Perché è così e basta. Per fortuna ho almeno il
telefono, per fortuna posso scrivere e le parole degli altri, in qualche modo,
tengono caldo, affievoliscono questa sensazione di solitudine che non mi
appartiene. Sarà la stanchezza. Sarà l’idea di dover salire in stanza e
studiare le diapositive, sarà la paura della prima vera e propria simultanea
cinese in italiano …
sì, sarà tutto questo che rende questo risotto agli scampi quasi immangiabile
sebbene la polpa sia bianca, delicata, corposa e saporita, persino.
La stanza è dignitosa. Meglio dei
corridoi con la moquette. La moquette non mi piace, mi sa di sporco e poi
questa, rossastra con fiorellini gialli minuscoli, è strana. Le scarpe sembrano
sprofondarci dentro man mano che cammini, è proprio strana. Secondo me sotto ci sono
strati su strati sovrapposti negli anni … che immagine raccapricciante. La
stanza invece è carina. C’è il parquet a terra, è anonima, non ci sono dettagli
che me la faranno rimanere impressa. Shane avrebbe detto che non ha stile,
forse avrebbe avuto ragione. Ma fa niente, ci devo solo dormire una notte, in
fondo, che vuoi che sia.
Bussano alla porta: servizio in
camera. Un bollitore! Che gioia! E persino una bustina di camomilla, in realtà
io volevo solo bere acqua calda kaishui
per la gola perché ho dimenticato a casa il tè allo zenzero per la voce, non
posso mica avere la voce rattrappita domani mattina in simultanea, devo essere
impeccabile. Faccio bollire l’acqua, una doccia calda, olio di lavanda che
spero mi stordisca a sufficienza, ma no, sono solo illusioni, lo so che
l’adrenalina è in accumulo e che niente potrà farmi rilassare o lasciarmi
dormire in santa pace.
Non c’è nemmeno la presa della
corrente vicino al letto. Penso a te, come posso non farlo? L’uomo che mette il
telefono a caricare lontano dal letto per non avere le vibrazioni durante il
sonno e perché così, quando la sveglia suona, al mattino, è costretto a
svegliarsi perché deve alzarsi e attraversare l’appartamento – a dirla tutta
quello in cui vivevamo era talmente piccolo che non ci voleva molto per andare
da un’ala all’altra, ma questa è un’altra storia.- Io però non ci sono
abituata. Mi mette ansia dover avere il telefono a caricare lontano, ho paura
di non sentire la sveglia e poi, se devo guardare l’ora come faccio? Uff. Il
risultato del caricamento a distanza è che mi sveglio quattro volte e dato che
sono oggettivamente miope come una talpa,
sono costretta a infilare gli occhiali, o meglio, a poggiarli
approssimativamente sul naso per leggere i numeretti blu scritti in un piccolo
led sotto al televisore …
Ore sei e cinquanta. Suona la
sveglia e io sono pronta. La mia simultanea mi aspetta.
Solo ora mi son resa conto di
aver scritto un altro post che non è
un racconto di narrativa, è un frammento di vita vissuta o forse no, forse è
una storia inventata perché mi chiedo ancora, ogni momento. se sta succedendo tutto davvero
o se mi sveglio di soprassalto uno di questi giorni e mi accorgo che era un
sogno, un fantastico sogno.
Per assicurarmi che sia realtà,
prima di salire sul treno, vado a comprare un libro ricordo di questo viaggio
lampo, di questo ennesimo battesimo … dovrò iniziare con le prime comunioni tra
un po’…