venerdì 29 marzo 2013

The Last but not Least Lecture

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Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

Mi piace quando qualcuno mi regala un libro. 
A prescindere da che libro sia, mi fa felice. 
Se poi c'è una dedica sulla prima pagina, la felicità raddoppia. La dedica è importante, va scritta a mano da chi fa il dono e lega quel regalo alla persona da cui l'hai ricevuto per sempre. Ovviamente, direte voi, questo ha un lato negativo: se litighi con quella persona o scompare dalla tua vita per sempre, che te ne fai delle sue parole dopo dieci anni? Niente probabilmente. Però, pensateci, infondo quelle parole sono legate al rapporto che avete o che avevate con quella persona in un determinato momento della vostra vita, perciò continuaneranno ad avere valore, almeno in questo senso.
Quindi, dicevamo, un libro regalato è già una gioia. Se poi è Chiara a farti un regalo di Natale, la gioia si duplica.
Insomma, non puoi farne a meno e sul treno inizi già a leggerlo.
Accidenti!
Eppure Chiara sa che una delle categorie di libri che non riesco a leggere sono quelli che parlano deliberatamente di morte, drammi familiari, malattie terminali... e cosa fa? Mi regala il libro che è il riassunto dell'ultima conferenza tenuta da un professore/scienziato che sta per morire di tumore?
Partiamo già molto male.
Però il titolo della conferenza è "How to achieve your childhood dreams" (come realizzare i sogni che avevi da bambino) ed è in lingua originale. Vabbè, magari se Chiara me l'ha regalato un motivo c'è... magari vale la pena provare a leggerlo.

Inizio a leggere, col beneficio del dubbio.

Il libro scorre via veloce, talmente veloce che l'unico modo per goderselo é  centellinarlo. 
È chiaro che ci sono libri che si possono divorare in poco tempo perché non vedi l'ora di sapere che succede dopo, perché la trama è avvincente e la scrittura scorrevole; ma ce ne sono altri che sono talmente densi di significato da richiedere più tempo, vogliono essere, in una certa  misura, digeriti e metabolizzati, sarebbe una cattiveria deliberata leggerli tutto d'un fiato. 

Insomma, ci ho messo tre mesi e mezzo, vabbè, quasi quattro, per finirlo, ma me lo sono goduto interamente, ogni pagina.
Non si può non ammirare un uomo che sa che sta per morire e vuole parlare di vita. Di esperienze e soprattutto di sogni, i propri e quelli degli altri, perché credo abbia ragione quando dice che aiutare qualcun altro a realizzare un sogno può essere bellissimo.
Chi mi conosce lo sa, io sono una sognatrice incallita. Anche troppo sogno e questo alle volte porta a delle cadute rovinose, ma se penso ai sogni seri, alla lista delle cose che sognavo da bambina e faccio un bilancio di quanti ne ho realizzati o sono sulla buona strada per realizzare, rimango esterrefatta e, concedetemelo una volta ogni tanto, sono anche fiera di me. 
Ho la metà degli anni di Randy e fortunatamente non sto morendo, ma se così non fosse, se fossi arrivata alla mia "last lecture" potrei tracciare un bilancio abbastanza positivo.
Ma il libro non é un libro di morte, lo ripeto, è di vita. E ci sono delle parti a dir poco ispiranti. 
Ho preso da un po' di tempo un'abitudine, oltre a sottolineare sul mio libro le parti che più mi colpiscono, le trascrivo sulla moleskine. Mi piace, quando la sfoglio a ritroso, ritrovarci un po' delle parole degli scrittori che mi accompagnano nei miei giorni, oltre alle mie.
"Brick walls are there for a reason. They give us a chance to show how badly we want something." 
(I muri ci sono per una ragione. Ci forniscono un'occasione per dimostrare con quanta forza vogliamo qualcosa. trad. mia)
Impeccabile. Incontriamo ostacoli a valanga, ogni giorno, detto da una persona che ha imparato una lingua che ogni giorno, almeno per i primi tre anni, ti mette davanti a muri di cemento armato che senti di non poter superare... ma qualcosa ci ha spinto, pensavamo di  non farcela, ma forse ogununo di quei caratteri che non riuscivamo a memorizzare era un mattoncino da superare. 
Ci credo nella forza di volontà, non sarei chi sono oggi se non avessi creduto che l'interprete potevo farlo davvero, a prescindere da quanto fosse lunga e tortuosa la strada.

"If you have a question" my folks would say "then find the asnwer". The instinct in our house was never to sit around and wonder. We knew a better way: Open the encyclopedia. Open the dictionary. Open your mind."
("Se avete una domanda" dicevano i miei genitori "trovate la risposta." L'istinto a casa nostra non era mai quello di rimanere seduti a farsi domande. Conoscevamo un modo migliore: Aprire l'enciclopedia. Aprire il dizionario. Aprire la mente.)

A casa mia anche, è sempre stato così. Se hai una domanda, vuoi sapere qualcosa, cercalo. Mia madre mi ha fatto crescere avvolta in mezzo ai libri, ai quaderni, alle penne. Non c'era molto che potessi fare, se non sentire una curiosità folle crescere dentro di me. Quella di chiedere, sapere, leggere. Mia nonna diceva sempre: "Per fortuna che ci sei tu." aveva comprato un'enciclopedia, con la copertina rossa e immacolata, quando mio padre e mio zio andavano ancora a scuola, ma non l'avevano mai aperta. Io ero incantata da quei libri, suggestionata. Erano divisi da A-a-Z e mi pare di vedermi, bambina arrampicata sul letto a cercare di tirare giù quello giusto per le ricerche non dovevo fare. Non erano ricerche di scuola. Io mi divertivo a leggere le voci dell'enciclopedia e a scrivere sul quaderno non-di-scuola il riassunto di quello che leggevo. Era un lavoro faticoso, certo, ma così affascinante... e quei libri sembravano infiniti! Ora, ovviamente, tutto è diverso. Sei curioso? Non ti viene quella parola, o quell'altra come si pronuncerà? Vuoi un'infomazione, hai un dubbio da frugare? Tiri fuori il telefono e cerchi su google. Cinque secondi e hai la risposta, ovunque tu sia. Comodo, certo, ma a dirla tutta un po' si perde il fascino ... quello di andare a prendere quei volumi intrisi di sapere e cercare una risposta a quello che volevi sapere...

"You can always change your plan, but only if you have one. I'm a big believer in to-do-lists. It helps us to break life in small steps."
(Puoi sempre cambiare il tuo piano, ma soltanto se ne hai uno. Credo moltissimo nello stilare liste di cose da fare. Ci aiuta a dividere la vita in piccoli passi.)

Beh, questo potrei averlo scritto io, senza problemi. E so che ci sono persone che sarebbero prontissime a testimoniare la mia mania di fare piani e programmi, ma così è, solo se pianifichi puoi fare le modifiche, se non lo fai ti ritrovi in balia degli eventi... Eppure ho imparato a mitigare, a cercare un giusto equilibrio tra il pianificare e l'improvvisare... ma il primo mi riesce meglio, non c'è niente da fare!

Sono pagine davvero meravigliose, che ti lasciano qualcosa mentre le leggi, che ti fanno riflettere su cose banali, che non vedi nemmeno a volte. 
Ma ho già detto troppo su un testo che, dico la verità, faccio fatica a rimettere in libreria. Quindi, vi lascio con un'ultima citazione e con un regalo, sperando che averne scritto possa mitigare un po' il distacco e mi permetta di riporlo e aspettare la prossima lettura.

"Experience is what you get, when you didn't get what you wanted. It's a phrase worth considering at every brick wall we encounter, at every disappointment. It's also a reminder that failure is not just acceptable, it's often essential. The person who failed often knows how to avoid future failures. The person who knows only success can be more oblivious to all the pitfalls. Experience is what you get when you didn't get what you wanted. And experience is often the most valuable thing you have to offer."
(L'esperienza è quello che ottieni, quando non ottieni quello che volevi. Parole che vale la pena ricordare quando incontriamo un muro, o una delusione. Ci ricorda anche che il fallimento non è solo accettabile, ma è spesso essenziale. La persona che ha fallito, spesso sa come evitare fallimenti futuri. Quella che conosce solo il successo può non rendersi conto delle difficoltà. L'esperienza è quello che ottieni, quando non ottieni quello che volevi. E l'esperienza è spesso la cosa più importante che hai da offrire.)

Che posso dire? Chiaro è che la mia amica, non per niente, Chiara, avesse bene "chiaro" cosa mi servisse leggere in un momento particolare della mia vita. Il suo regalo, una volta ancora, era azzeccato più che mai, gonfio di emozioni. Non posso che ringraziarla, per aver saputo cogliere nel segno anche sta volta!

E dato che questo libro è tratto da appunti dettati per telefono dall'autore a un amico mentre faceva altre cose, perchè gli rimaneva poco tempo da vivere e non ne aveva per mettersi a scrivere, che avevano l'obiettivo di colmare quanto Randy Pausch non era riuscito ad approfondire nella sua "Last Lecture", l'ultima lezione/conferenza che ha tenuto, non posso fare a meno di presentarvelo di persona e di lasciarvi il video della sua Last Lecture che è sicuramente... last but not least.


giovedì 28 marzo 2013

De Libri

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I libri, in generale, sono una parte fondamentale della mia vita. Lo sono sempre stati, da quando era mia madre a leggerli per me, prima di dormire, da quando le chiedevo di rileggere mille volte lo stesso episodio di Pippi Calzelunghe, il libro gigante con la copertina arancione senza figure, ma con delle fotografie dentro. Lo sono stati da quando zia Mirella a Natale mi regalava i libri della Mursia, quelli profumati e non mi regalava libri a caso, mi regalava "Il racconto di Natale" di Dickens o "Pattini d'argento" o Rodari. 
Ma non è di questo che voglio parlare, voglio parlare di quanto i libri siano stati e siano importanti nella mia vita. 
Un percorso strano, mi ricordo ancora che fino ai diciotto-diciannove anni, non conoscevo la magia del comprarsi un libro. Me ne avevano regalati, sicuramente, ma poi tutti i libri che ho letto nella mia infanzia venivano dalla biblioteca. Non ci avevo mai pensato che uno potesse costruirsi una libreria tutta sua. Andavo in biblioteca, vecchia chiesa sconsacrata, mi sceglievo tre o quattro libri del "Battello al Vapore" e li divoravo nei mesi estivi, alle elementari.
Poi, alle medie, c'era la biblioteca della scuola. Era solo un'aula, ma c'erano un sacco di libri dentro. E la professoressa di educazione tecnica che la gestiva mi lasciava tutta la ricreazione di tempo per stare lì dentro da sola a scegliere un volume tra tutti quelli che c'erano sugli scaffali, potevo scegliere qualsiasi cosa. Il primo libro che ho preso in prestito lì dentro, me lo ricordo ancora, è stato "Mary Poppins", numero di pagine? Venerabilmente 440. Ma non era stata scelta deliberata, in quel caso, bensì costretta dalla mia prof. di lettere che non mi aveva lasciato molte opzioni.
E così leggendo, un libro dopo l'altro mi veniva voglia di scrivere, di raccontare anche io delle storie e si formava la mia coscienza critica.
Iniziavo a rendermi conto che non tutti i libri mi piacevano allo stesso modo. Alcuni proprio non potevo soffrirli e quando ciò accadeva, non c'era niente da fare, non riuscivo a superare le prime pagine. Un diritto imprescindibile del lettore, a mio avviso e all'avviso di Pennac, sicuramente più degno di considerazione di me, è quello di poter non leggere. Beh, ci sono libri che dopo vent'anni ancora aspettano di essere letti.
"Prof, per favore posso cambiare libro?" la mia non era una semplice richiesta, era un'implorazione. Quel maledetto "Castello di Otranto" che la prof di lettere voleva leggessi mi metteva angoscia, mi faceva sentire triste... stavo capendo in quel periodo quante emozioni può trasmettere la lettura, ma quelle, di emozioni, proprio non mi piacevano. La prof aveva guardato attentamente la mia faccia preoccupata e, comprendendo la situazione, mi aveva permesso di sostituire il libricino da 100 pagine scarse che odiavo tanto con il mattoncino da 440 di Mary Poppins. Ma, insomma, volete mettere? 440 pagine di avventure di Mary Poppins erano decisamente più leggibili.
La vera rivoluzione avvenne al liceo.
Al liceo iniziai a frenquentare la rifugioteca. (Per saperne di più, ecco il post dedicato) E tutto cambiò. Perché quel posto e la sua guardiana avevano una magia unica. Perché lì i libri prendevano vita, si animavano, diventavano condivisibili, perché non erano più un'esperienza privata, solitaria, ma diventavano qualcosa di comunitario. Leggevamo ad alta voce, i suoni si disperdevano per le stanze semivuote della rifugioteca, in un gioco tutto pieno di magia. Ogni giorno era un'emozione nuova e Laura ogni giorno aveva qualche libro nuovo che voleva leggessimo, voleva il nostro parere. 
Ed è stata Laura, un giorno, con una frase detta per caso a casa sua, dopo aver mangiato del purè di rapa rossa, a farmi intuire che oltre ai libri che prendevo in prestito in biblioteca, avrei potuto avere dei libri miei! Non lo avesse mai fatto!
Vi sembrerà strana questa mia confessione, ma per davvero non avevo mai immaginato di poter avere dei libri miei. Tutti miei. Anzi, ero sempre disperata all'idea di non poter trattenere abbastanza dei libri che leggevo, ogni volta che li portavo indietro sullo scaffale della biblioteca era un tuffo al cuore. Una separazione dolorosa. Avevo un quaderno e ci trascrivevo le parti che più mi colpivano... cos'altro potevo fare? Quello mi sembrava un buon metodo per conservare un pezzetto del libro appena finito...
"Avere dei libri tuoi è una cosa bella. Io per tanto tempo sono stata molto attaccata ai miei libri, ora lo sono di meno, riesco persino a regalarli." Così aveva detto Laura, la guardiana della rifugioteca, quella sera d'inverno, davanti alla sua libreria. Ovviamente non poteva avere idea di cosa fosse scattato dentro di me in quel momento. Non poteva sapere che mi aveva appena fatto intuire che potevo avere libri tutti miei! 

Il primo libro che ho comprato con i miei risparmi è stato "Novecento" di Alessandro Baricco. Alla Libreria Croce, Roma. Subito dopo una lettura ad alta voce all'ennesima meravigliosa presentazione del nuovo libro di quel genioVale la pena dare un'occhio al genio di Baldo Savonari) E da quel giorno, per dannazione di mio padre che ha dovuto costruire una libreria nel sottoscala, comprare libri è diventata la mia passione e la mia dannazione.



Ogni libro che popola la mia libreria ha nella prima pagina bianca, subito dopo la copertina, la mia firma, la data in cui l'ho acquistato e il luogo e un paio di righe che mi ricordano perché, in che circostanza l'ho comprato... può sembrare sciocco, ma se ci penso, tra vent'anni, mi basterà aprire a caso un libro e avrò un pezzetto della mia vita attaccato ad esso. Indossolubilmente legato. 
Tutta questa digressione non l'avevo pensata, in realtà volevo solo scrivere due righe per dire che ho deciso di aprire una nuova rubrica per parlare di libri... ed è venuto fuori questo... che vi devo dire, è andata così, ma sappiate che in questa sezione del blog troverete qualche mia idea, commento, sproloquio su libri letti o in lettura... Tutto qui.

Tra sogno e realtà

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Tra sogno e realtà

Prologo

Come in un velo avvolto dalla notte, di fronte l’acqua del porto più scura del cielo e la luce all’orizzonte troppo lontana, la porta d’ingresso troppo chiusa.
Resta seduto, contro il muro della notte, con gli occhi scuri pieni di quella luce brillante che li caratterizza … contro il muro della notte è seduto, le troppe borse pesanti –tutta la vita dentro- troppo pesanti per continuare a trascinarle. Solo la custodia nera, bislunga, è tenuta ferma dal suo braccio, non che il suo basso sia in pericolo in quella landa sperduta.
Seduto scruta l’orizzonte, deciso a passare la notte così, fermo, con la sigaretta – appena accuratamente preparata con cartina e tabacco- stretta tra le labbra, gli occhiali da sole sulla testa, le gambe accavallate e il sorriso beffardo stampato sul volto. La divisa della marina è troppo scomoda, ha slacciato i primi bottoni della camicia ed è fermo lì ad aspettare, a misurare il futuro che lo attende all’alba, a chiedersi in quali porti finirà lungo la sua via.
Se qualcuno le avesse chiesto di dipingere Eddie Wolf, questo sarebbe stato il suo quadro. I colori sarebbero stati tenui e acquerellati, per creare un’atmosfera da sogno. Così lo avrebbe ritratto, se glielo avessero domandato, se solo avesse saputo dipingere. Lei di colori, tele e pittura ne capiva ben poco, ma quell’immagine, quella sola, avrebbe voluto saperla disegnare, per far sì che non si sciupasse nei meandri curiosi della memoria, perché lui non svanisse mai dai suoi ricordi. Quando l’aveva conosciuto lei, Mr. Wolf non era più nella marina da tempo, faceva invece un lavoro che permetteva al suo cervello di “lavorare al minimo” e questo poco gli si addiceva, si limitava a passare il tempo, anche se si prendeva cura del suo cane con devozione. Lei lo avrebbe voluto vedere su una nave pronta a salpare o le sarebbe piaciuto partecipare a uno dei suoi concerti quando ancora non aveva deciso di appendere il basso al chiodo. Per questo l’immagine che indelebile le sarebbe rimasta nel cuore di lui sarebbe stata quella, come un quadro della memoria.
Sono i singoli istanti a creare l’eternità, recita un detto cinese e se per una volta bastasse cambiare un istante per avere un risultato diverso? Cosa accadrebbe? Il limite tra sogno e realtà, tra verità e finzione non si assottiglierebbe forse? E non nascerebbe così tutt’un’altra storia, o forse sempre la stessa ma con un istante soltanto diverso …



Una sosta breve, niente di più. Così aveva detto il capitano mentre la nave attraccava al porto minuscolo dell’altrettanto minuscola isola di Headsea. Un’isola talmente insignificante che sulle carte nautiche non era nemmeno segnata, un puntino in mezzo all’oceano o poco più.
Miss Alice Bridge era sul ponte e vedeva quella terra avvicinarsi sempre di più, la linea retta dell’orizzonte si frastagliava, sembrava ricamata e i ricami divenivano i profili sempre meglio delineati di casette bianche di marmo con i bordi rossi, tutte simili e tutte allineate le une alle altre, come sull’attenti, a dare il benvenuto.
Non sarebbe scesa dalla nave lei, cosa gliene importava, in fondo? Voleva solo arrivare il prima possibile a destinazione, iniziare il prima possibile quella terribile vita che l’aspettava dall’altra parte del mondo. Un giorno in più o uno in meno su quella nave non le avrebbero cambiato niente, le speranze, i sogni, le idee le aveva gettate a mare quando era salita a bordo, vuota come una scatola in disuso.
Vedeva tutti i passeggeri, ordinatamente, lasciare il vascello e non provava nulla. Le casette bianche, linde sotto i raggi del sole cocente non la emozionavano, lei aveva indossato la maschera più rigida tra quelle che aveva potuto costruire una ragazza della sua età, quella più spessa di tutte ed era diventata spettatrice del mondo, non più attrice protagonista. Lo era stata, lei, attrice, aveva vissuto davvero, ma suo padre aveva deciso per lei e poco c’era da fare se non salire su quella nave e andare fin nell’altro mondo a condividere la vita con un perfetto sconosciuto.
«Miss Bridge, la nave verrà svuotata e pulita, dobbiamo fare manutenzione, ci fermeremo qualche giorno in più sta volta, deve scendere anche lei.» al capitano non si poteva non dar retta, così anche lei fu costretta a lasciare la nave.
Il porto, ancor più piccolo di quando le fosse sembrato dal ponte, fremeva di vita e lei guardando dritta davanti a sé, iniziò la ricerca della locanda in cui avrebbe alloggiato. Il pontile era gremito, pieno di personaggi singolari, lei li scansionò tutti con lo sguardo, uno dopo l’altro. Dall’ex allenatore di calcio ritirato sull’isola per trovare pace e serenità, al giovane con i capelli tutti rasati che blaterava storie e cercava di convincere il suo gruppo di amici della fattibilità dell’idea di marchiarsi a fuoco sulla pelle una scritta che avrebbe rappresentato il suo inno al menefreghismo più puro.
Camminava dritta, Miss Bridge, e più si guardava intorno imbarazzata, più si accorgeva di esser finita in una terra in cui di donne sembrava non essercene affatto. Ormai si era abituata a passare il tempo circondata da soli uomini sulla nave, ma non si aspettava che anche a terra poco sarebbe cambiato … arrivata alla porta della locanda trovò lì alcuni dei suoi compagni di viaggio a cui, durante le noiose ore di viaggio in nave, aveva iniziato a dare lezioni d’inglese. Erano tutti marinai italiani, tranne il capitano, la nave era arrivata a Portsmouth a prenderla direttamente dal porto di Genova. Avrebbe continuato il suo lavoro anche in quei giorni passati a terra, lei non lasciava mai le cose incompiute e nel lavoro era professionale e impeccabile.
Il secondo giorno sull’isola, così, si mise subito a lavoro. Doveva occupare il tempo, temeva che quei giorni sarebbero stati infiniti. E mentre i marinai si alternavano nello scaricare tutto il contenuto della nave, lei, seduta sul pontile, faceva lezione a chi era di riposo. Mentre insegnava non alzava quasi mai gli occhi dal libro, non riusciva ad abituarsi agli sguardi insistenti dei suoi allievi e nessun abito che metteva sembrava essere mai sufficientemente accollato perché il suo seno sufficientemente prorompente non attirasse lo sguardo. Quel giorno, mentre ripeteva per l’ennesima volta la differenza tra simple past e present perfect, alzò gli occhi, per controllare che tutti la stessero seguendo e … un paio d’occhi neri, come fulmini a ciel sereno. Un sorriso birichino, come quello d’un ragazzino di cinque anni che ha appena combinato un guaio e fa finta di niente o che ha appena messo gli occhi su un gioco nuovo che sa già che non potrà avere.
Li avrebbe ignorati, ovviamente, la sua mente analitica ormai li aveva già passati allo scanner, ma lei avrebbe proseguito con la lezione e tutto sarebbe filato liscio. Si sarebbe concentrata sul lavoro, almeno quello le era rimasto, anche se per poco tempo.
La vita sull’isola diventò presto monotona, lezione di mattina e di pomeriggio, qualche ora di lettura nella sua stanza e notti insonni a pensare a quello che l’aspettava, al futuro grigio che si prospettava all’orizzonte. Solo, come un raggio di luce, c’erano quegli occhi, c’era quel sorriso furbo sul volto di un marinaio della barca attraccata accanto alla sua, una molto modesta, ma ben tenuta. Mentre faceva lezione, sebbene non lo facesse coscientemente, alzava gli occhi e incrociava quelli, ogni singola volta. Caso? Sì certo, si ripeteva.
E andava avanti, senza pensare, come aveva imparato a fare allenandosi poco alla volta sulla nave per non lasciare che nessun pensiero o emozione scalfisse la sua maschera spessa; ma prima di andare a letto, la sera, non riusciva a non pensare, per un istante o due al sorriso che lui le aveva lanciato di sfuggita durante la giornata. Era come se sapesse quanto faticoso fosse insegnare l’inglese a chi proprio non voleva impararlo … quel sorriso sembrava, in qualche strano modo, arrivare nel profondo, tagliente come lama, e penetrare la sua maschera tanto ben costruita.
Quei sorrisi di soppiatto, quegli sguardi che era sempre pronto a lanciarle mentre gli passava accanto per tornare alla locanda e lui, sigaretta tra le labbra e camicia della divisa da marinaio con qualche bottone slacciato, beveva una birra con la gente dell’isola.
Una sera Miss Bridge non riusciva a prendere sonno, la sua stanza era troppo calda, sembrava mancarle l’aria, così andò a fare due passi, sperando di trovare un po’ di brezza sul pontile.
E lui era lì, seduto, solo contro il muro della notte. Teneva qualcosa in braccio e lei non sapeva cosa fosse, non riusciva a capirlo perché nascosto dalla notte, si avvicinò ancora
«Dunque britannica e va in America, non male …» la sua voce era gentile, spiritosa e con un filo di sarcasmo quasi come se volesse prenderla in giro, lei abbozzò un sorriso e ne approfittò per studiare lo strumento a corde che teneva lui in braccio. «Cosa ci fa qui con un basso elettrico?» chiese senza troppi indugi, anche alla curiosità aveva deciso di rinunciare da un pezzo. «Lo suonavo. Ma su questa fottuta isola non posso, non c’è corrente elettrica.» «Un bassista!» «Ora mi vuole raccontare che sa cos’è un basso?» lei arrossisce, la musica nuova, il rock, non si addice a una ragazza di buona famiglia, la musica classica dovrebbe ascoltare … «Sì. Mi piace il rock.» perché gliel’ha detto? Che motivo c’era? Lui sorride e finge, con la mano sulla tastiera di mettersi a suonare. «Dunque se non può nemmeno suonare perché rimane qui?» «Non è il massimo, ma qui ho un lavoro al porto, manutenzione delle navi e cerco di guadagnare quanto basta per ripartire.» il marinaio indica la barca armeggiata poco distante «Quella è mia, ma non ho soldi per il carburante, non arrivo lontano.»
«Non è un lavoro monotono quello che fa al porto?» chiede lei, lui le fa cenno di sedersi, lei resta in piedi. Aveva deciso che non avrebbe mai più parlato con altri ragazzi all’infuori di quelli già sicuramente sposati –come tutti quelli sulla nave che suo padre aveva attentamente selezionato- o che conosceva da molto tempo e stava infrangendo tutte le regole, in una volta sola. «Un lavoro che ti fa lavorare il cervello al minimo», lui riaccende la sigaretta che si era spenta, l’ha fatta lui, con tabacco e cartine, dice che lo fa per risparmiare un po’ di più «Butterà via i polmoni» sentenzia Miss Bridge, con un velo di fastidio nella voce, non per quello che ha appena detto, ma perché sente che le importa davvero dei suoi polmoni. Lui sorride. Visto da vicino quel sorriso toglie davvero il fiato. Miss Bridge non lo saluta, torna indietro, lungo il pontile e vorrebbe voltarsi a guardarlo, vorrebbe sapere se la sta seguendo con lo sguardo, ma non lo fa. È rischioso e lei ha scelto di tenersi lontana dai rischi.
Miss Bridge era arrivata in largo anticipo per la lezione e non si era accorta di lui, finché non aveva incrociato il suo sguardo e lui, pronto, le aveva regalato un altro sorriso. Dolce e beffardo allo stesso tempo, stava giocando con lei o cosa? Si chiedeva la ragazza che stava entrando lentamente in confusione ancor prima di rendersene conto. Il fatto che io lo incontri spesso e che lui sorrida è gentilezza, è solo un caso. Caso? Sì certo. Continuava a ripetersi lei. Poi, ancora in attesa degli studenti ritardatari, lo aveva guardato bene, una delle poche volte in cui lui era voltato e non se ne era accorto. Non era bellissimo, non quel bello che toglie il fiato, ma con un fascino tutto particolare.
E poi, e poi c’era quella forza incontrollabile e inspiegabile, che la spingeva verso di lui. Era una forza che aveva provato tanto tempo prima, ma che aveva abbandonato insieme alla speranza di sentire il battito del cuore aumentare, insieme alle emozioni, quando aveva lasciato le rive britanniche. Ma poco importava il fiato corto che le veniva, poco importava quel battito di cuore che vederlo venire nella sua direzione le suscitava, lei era stabile e posata e poteva tenere tutto sotto controllo, ovviamente. Non aveva mica quindici anni, lei, non si sarebbe fatta mettere sottosopra da un paio di begli occhietti e da un sorriso, figuriamoci, non poteva neanche permetterselo. Era solo il cretino di turno, questo si diceva, di continuo, come se fosse sufficiente per cancellare le emozioni. Farà così con tutte le ragazze che arrivano sull’isola, di sicuro, devo smetterla di pensarci.
Doveva passare il tempo, a sentire qualche racconto dei marinai alla sera non c’era poi nulla di sbagliato, il capitano le aveva chiesto di unirsi a lui per cena e lei non poteva rifiutare, non poteva dire no ad uno dei più cari amici di suo padre.
Ed è così che si ritrovano seduti allo stesso tavolo. Fianco a fianco. Il ginocchio tocca il suo. E qualche brivido, che vorrebbe fingere di non provare, parte lungo la spina dorsale. «Miss Bridge, questo è Eddie Wolf. Il signor Wolf è stato nella Royal Navy insieme a me per quasi un anno tempo fa, poi ha lasciato tutto, comprato la sua barca e l’ho perso di vista per anni!.» lui allunga il braccio per farle il baciamano. La sua stretta è dolce, il tocco delle labbra gentile.
E lei sente il cuore battere veloce, veloce, veloce.
Fa un respiro profondo e riesce a dire soltanto. «Piacere, signor Wolf.»
Non può non notare che sulla sua mano sinistra, sotto la luce del lampadario risalta un anello, un filo d’argento, all’anulare. È sposato, dunque? I pensieri e le emozioni che ha finto di non aver avuto nei giorni passati creano un vortice dentro di lei, ma che cosa cambia, comunque? Lei non è forse promessa in moglie a qualcun altro … cosa le dice la testa?
Durante la cena mangiano e chiacchierano come se si conoscessero da una vita, lei ha paura persino che il capitano riesca a intuire quello che sta provando perché continua a dire «Forse dovremmo imbarcarti con noi, Eddie, Miss Bridge non rideva così e non la vedevo così serena da quando l’ho conosciuta ed aveva dodici anni.» lei è imbarazzata, ma se guarda fisso gli occhi color cioccolato di lui si sente quasi a casa, tepore. Ecco cosa c’è nel suo sguardo e una sfrontatezza che lei trova fastidiosa quanto adorabile. E lui ascolta. La sua abilità di ascoltarla la lascia stupefatta, non importa cosa dica, qualunque argomento va bene, si rende conto che lui non sta solo sentendo le sue parole come fa il vecchio capitano o come hanno fatto tanti dei suoi amici a Londra, la ascolta sul serio.
A fine cena, il capitano la riaccompagna alla locanda e si scusa perché i lavori di manutenzione prenderanno almeno un’altra settimana.

Miss Bridge da sola nella sua stanza non sa come fare. Deve calmarsi. Fermarsi. Tutte quelle emozioni son causa di problemi, senz’altro. E lei non può avere altro per la testa che non sia il suo viaggio, il suo matrimonio con il rampollo americano … Eddie Wolf, il signor Wolf … perché doveva essere sulla mia strada? Si chiede, eppure non vorrebbe non averlo incontrato. Complica le cose, ma si sente come rinata dalla stasi che provava, dal vuoto che aveva aperto dentro se stessa. A tavola ha detto che è un bravo cuoco, sarebbe bello mangiare qualcosa fatto da lui … sarebbe bello vederlo di nuovo, sarebbe stato bello se il capitano se ne fosse andato a letto prima e li avesse lasciati da soli. Smettila. Dice a se stessa, ma non riesce e non prende sonno.

Il giorno dopo, al porto, spera di vederlo. La lezione d’inglese diventa sempre meno interessante, l’attenzione si sposta su di lui, sulla possibilità di incontrare il suo sguardo e sulla speranza di avere una scusa per scambiare qualche parola … quando meno se lo aspetta eccolo lì, a pochi metri. «Miss Bridge, qui il mio amico» il ragazzo pelato che per fortuna non si è ancora marchiato a fuoco «Non sa bene l’inglese, vorrebbe seguire le sue lezioni, può?» lei lo guarda e lui sorride, beffardo «Ma da solo non viene, vuole che gli faccia compagnia.» Se Miss Bridge stesse ragionando direbbe che a lui non servono le lezioni di inglese. Non ne ha bisogno, è madrelingua. Ma lei non sta ragionando, non può che cogliere l’occasione. «Certo, per me non ci sono problemi.» dice sorridendo, ma non troppo, tutti gli occhi degli altri marinai son puntati su di lei.
Eddie va a lezione, puntuale ogni giorno, per quattro volte di fila. E tutto il tempo lei sente i suoi occhi puntati addosso. Durante gli esercizi e le spiegazioni la fa ridere, racconta storielle, si siede accanto a lei e fa battute sottovoce, con accento britannico strettissimo su tutti i partecipanti al corso, non risparmia nessuno e lei cerca di continuare a darsi un tono, di non scoppiare nelle risate fragorose che sente dentro di sé e si accorge che con lui così vicino la maschera di imperturbabilità che si era messa si sta riempiendo di crepe e inizia a sgretolarsi. Il suo sguardo la scioglie come se la sua protezione fosse fatta di ghiaccio e lui fosse sole estivo bollente, impietoso e irrompente.
Lui è divertente, è spigliato, pieno di vita. Racconta di avere un cane che gli dà preoccupazioni e puntualmente allaga la cabina della barca dove lo tiene chiuso durante il giorno; miss Bridge odia i cani, ma sentire Mr. Wolf parlare del suo la intenerisce a dismisura …
Esercizio di grammatica. Mr. Wolf consegna il suo e sul foglio invece delle frasi c’è scritto soltanto: Una birra? Sta sera? Aspetto all’uscita sul retro della locanda.
Il buonsenso vorrebbe che lei prendesse il foglio e lo strappasse chiedendogli, gentilmente, di lasciare la lezione e di non permettersi più. Ma Miss Bridge, consciamente o non, non aspettava altro che un’occasione per rimanere da sola con lui. Non può far nulla. Quella sera il capitano ha organizzato una riunione con tutto l’equipaggio per fare il punto sullo stato di avanzamento dei lavori di manutenzione e sulla tabella di marcia per ripartire. Lei non può mancare eppure avrebbe dato qualsiasi cosa per stare con lui qualche ora, da soli.
Nemmeno lei si spiegava come avesse potuto lasciare che le emozioni che quel ragazzo con tutta la sua spontaneità le trasmetteva prendessero il sopravvento in quel modo.

Ho una riunione con il capitano. Spero di potermi liberare presto.

Scrive al posto del voto. Mentre scrive si sente già in colpa. Cosa sta combinando? Sta forse dimenticando perché è lì? Dove è diretta e cosa l’aspetta appena il viaggio riprende? Cosa crede di fare? E poi lui non ha forse un anello al dito che dichiara al mondo che il suo cuore è incatenato? Proprio mentre una tempesta di dubbi la prende si ferma a pensare e si rende conto che, in effetti, emozioni come quelle che prova quando Eddie le è accanto non sono poi così scontate, così facili da provare. Non per lei. Non lo erano nemmeno quando a Londra recitava. La maschera era sempre su, nessuno mai era riuscito a bucarla con così poco tempo …
«A domani Miss Bridge» dicono tutti quando vanno via, Eddie anche la saluta, come tutti e poi, sfiorandole appena la mano sottovoce aggiunge: «Aspetterò.»
Il capitano voleva che la riunione fosse alle nove, lei dice di aver mal di testa e riesce a convincerlo a spostarla alle sette. È lì ad ascoltare eppure il cuore continua a battere veloce, spera che l’aspetterà davvero, che quando arriverà non sarà già troppo tardi e lui non se ne sarà già andato. Il capitano dice che la nave sarà pronta l’indomani, che potranno salpare e saranno a New York nel giro di un mese.

Il mondo si ferma. Frena bruscamente. Ultima notte sull’isola. Si riparte. Si salpa. La realtà cruda torna a rompere quel breve e inteso sogno che Miss Bridge stava vivendo. Vorrebbe quasi piangere. Ma ha deciso che non l’avrebbe più fatto, e poi si ricorda che lui la sta aspettando e allora non le importa più di nulla. Non proverà forse più emozioni così forti tutte insieme in un vortice incredibile, in così poco tempo, quindi non può sottrarsi, farebbe un torto a se stessa se non andasse.
Esce quasi volando dalla locanda e lui fuori non c’è. Non è arrivato o forse già andato via. Si siede sulla panca all’angolo e aspetta. Forse arriverà e se non lo farà le dispiacerà non averlo potuto ringraziare per le emozioni che le ha regalato. Perché l’ha fatta ridere di cuore, perché l’ha ascoltata con interesse vero, perché si è divertita come non mai quando c’era lui alle lezioni, perché ha una vitalità che non è facile incontrare. Quando sta per rientrare, speranze già abbandonate, eccolo apparire trafelato, sorridente. Si ferma davanti a lei e ride. «Cosa?» chiede lei «Ho sbagliato locanda! Ho aspettato un’ora sotto il posto sbagliato …» lei inizia a ridere e non riesce a fermarsi. Lui si siede accanto a lei e le spalle si toccano. Lei non riesce a smettere di ridere, perché lui è incredibile, semplicemente. Lui la guarda e le sfiora la guancia con la mano, come per darle un pizzicotto, come se fosse una bambina. «Andiamo, birra!» dice lui e la trascina fino a una stradina in cui lei non è mai stata. «Un posto tranquillo, non incontreremo il capitano o i marinai qui.» dice lui per tranquillizzarla.
Si siedono e le parole, gli argomenti, le esperienze si susseguono. Vite parallele hanno vissuto. Lui era timido e taciturno e la musica l’aveva salvato e lei aveva scelto il teatro. Lui era un appassionato della musica moderna, il rock, il “rumore” e lei lo amava profondamente in segreto.
«Sei stato nella Royal Navy?» chiede lei, curiosa perché il mondo dei marinai senza radici e senza porto la appassiona da sempre e lui, gambe accavallate, busto leggermente protratto verso di lei, inizia a raccontare. Dell’inizio, di un viaggio della speranza su un treno sul quale era rimasto da solo fino all’ultima stazione, di una notte passata fuori dalla caserma nuova in cui doveva iniziare il servizio … ma narra degli scherzi e delle marachelle a compagni di avventura e superiori e lei ride, ascolta, si sente leggera. Vorrebbe che quelle ore non finissero mai.
«Domani, ho sentito, la nave salpa. È vero?» «Sì, l’ho appena saputo. Questa è la mia ultima sera sull’isola, perciò la birra l’offro io.» lui non vuole lasciarla offrire, ma alla fine cede solo a patto che il secondo giro lo paghi lui. In realtà la serata scorre via in un baleno, tra esperienze di vita, risate e qualche momento in cui le sembra di averlo così vicino che quasi ha paura e della seconda birra non c’è nemmeno bisogno. «Mi chiedo perché abbia aspettato fino a questa settimana per avere il coraggio di chiederti di uscire con me» dice lui, con un velo di quasi tristezza nella voce.

«La vita va così alle volte, ma io sono contenta di essere qui ora.» risponde lei e lo guarda fisso negli occhi. «Ti accompagno alla locanda, non voglio tu faccia tardi per causa mia.» «Domani sarà l’ultima lezione d’inglese, partiamo in serata, verrai?» «Son già lì.» risponde lui, intanto lei mangia una caramella gigante che le deforma una guancia. Lui ride. «Ne vuoi una?» chiede lei, quasi stizzita «No, ora no, ho il sapore della birra. Magari domani, però.» Arrivano sotto la locanda. «Dovremmo salutarci ora, domani ci saranno tutti al molo.» dice lui e l’istante dopo lei si ritrova tra le sue braccia. Stretta. Il cuore batte forte. Vorrebbe che quell’abbraccio durasse di più. Ma è confusa, si tira leggermente indietro e lui le bacia la guancia, le labbra lasciano quasi uno stampo sulla pelle, simile a quello che sta lasciando lui nella sua vita. «Ora vado, devo andare.» dice lei. E corre, su per le scale. Arriva in camera e si butta sul letto. Non riesce a dormire. Non c’è verso. Ha il cuore a mille. Rivive i minuti trascorsi da poco e si maledice. Perché non l’ha baciato? Perché? Era così vicino, avrebbe potuto averlo un bacio vero prima dell’indomani e della vita che l’aspetta. Un bacio, cosa c’è di male? Niente più niente meno. Resta sveglia quasi fino al mattino dopo e spera che lui non lo noterà, che non si accorgerà delle occhiaie … avrebbe voluto richiamarlo, correre giù di nuovo e baciarlo e stringerlo ancora e ringraziarlo per quella parentesi incredibile.
Ultimo giorno sull’isola, miss Bridge non aveva idea appena arrivata che tanta tristezza le avrebbe provocato lasciare quel posto. Alla lezione d’inglese non riesce a concentrarsi e lo cerca con lo sguardo. Lui è lì e ogni volta gli occhi li alza, come se sentisse che lei vuole trovare quell’istante di complicità. Lui inizia a tossire e lei non può far altro che dargli una caramella e in cambio lui le dà un bigliettino. Lei non lo apre, non durante la lezione. Ma quando torna alla locanda per finire di sistemare le sue cose non può farne a meno.

Prima che vai devo vederti, qualche minuto, da solo. Ti aspetto al faro vecchio, la porta è aperta alle tre del pomeriggio.

Lei sente il cuore in gola. Lo rilegge e sa che è tutto incredibilmente sciocco, che non dovrebbe, che non è il caso, che non serve a nulla. Ma come può fare? Non andare? Perdere l’occasione per passare qualche altro minuto con lui? Vorrebbe illudersi che non le cambia nulla, che vederlo o no è indifferente, ma il cuore martella e la mente è annebbiata. Chiude la porta della stanza e va.

La porta del faro è aperta. Lui non è ancora arrivato. Lei si sente quindicenne, sente di esser tornata un’adolescente cretina, ma quella sensazione le dà i brividi … lui arriva, sorridente, ma un po’ meno sbruffone del solito, le prende la mano e la trascina dentro con lui. «Dobbiamo entrare qui è zona di passaggio!» dice mentre chiude la porta. «Allora, tutto pronto?» «Sì, tutto a posto.» dice lei e intanto lo guarda e lo prega di darle una buona ragione per non partire, ma sa già che lui non può farlo, come potrebbe? «Ci salutiamo sul serio … » «A quanto pare…» «Buon viaggio allora …» e l’abbraccia, ma sta volta lei si è preparata e lo stringe anche lei, forte, non vorrebbe lasciarlo andare. Lo bacia in guancia con tutta la passione che è possibile mettere in un bacio a stampo e spera che lui senta e sa che se lo baciasse sulle labbra non troverebbe la forza di andarsene, ma che dovrebbe farlo comunque e che sarebbe devastata perché anche solo immaginare il sapore di quel bacio le dà i giramenti di testa. E poi quell’anello è fermo, sempre lì, sulla sua mano sinistra … Esce per prima e corre verso la locanda.
Quando è tutto pronto prende la strada per il porto. Cammina lenta e spera, anche se non osa ammetterlo, che apparirà. Ma lui non c’è. Il suo amico pelato sì però. Le si avvicina e la saluta, cordiale. «Faccia buon viaggio, signorina.» dice nell’inglese traballante che ha imparato e le bacia la mano. Scambio, equo e solidale.

Lei lo apre e lo legge, prima di salire a bordo.

Mi sono sentito come un ragazzino che aspetta un bacio.

Ecco cosa ha scritto, mr. Wolf. E lei rilegge le sue parole, il cuore con il battito ancora accelerato e vorrebbe correre indietro e darglielo quel dannato bacio e dargliene altri dieci insieme e non partire e restare ma, niente di tutto ciò è possibile. E poi lui ha l’anello al dito, forse i soldi che mette da parte per far ripartire la sua nave servono per tornare dal suo amore. Forse.

Mr. Wolf è rimasto da solo. S’appoggia contro il muro del vecchio faro e prova a respirare. Guarda l’anello che porta all’anulare sinistro e gli sembra che bruci, come se fosse fuoco vivo a contatto con la pelle. Una storia che trascina da troppo. Un cappio al collo, non un anello al dito. Ci pensa su. Lei sta andando via. E lui, dopo tutto il vortice di emozioni e sentimenti che ha provato nelle ultime due settimane è di nuovo solo. Non ha potuto fare a meno di essere attratto da lei, dal primo istante e poi parlandoci, passando del tempo con lei cercando un espediente dietro l’altro per starle vicino l’attrazione è cresciuta a dismisura.
La porta del faro si apre. Non è lei. Sperava fosse tornata indietro, ma non l’ha fatto. È il suo amico di sempre, «T’ho.» gli dice e gli mette in mano un bigliettino, «Mi sa che è meglio che lo leggi subito.» e se ne va. Lo lascia di nuovo solo.

Il tuo sorriso e il tuo sguardo pieno di luce arrivano diretti al cuore di chi incrocia la tua strada, non lasciare che le cose della vita li cambino mai, perché sono loro che hanno aperto la porta del mio cuore. Grazie per essere entrato nel mio mondo. Alice Bridge.

Lo legge una, due, tre volte. Cosa poteva aspettarsi? Una dichiarazione d’amore classica da una persona come Alice? Che gli chiedesse di farla restare con lui? No, ovviamente. Ma tra le righe riusciva a leggere tutto quello che gli era sufficiente.
Sufficiente per prendere l’anello e toglierselo, per decidere che alle volte il destino non ha i tempi giusti, ma che essi si possono aggiustare, che è lui artefice del suo destino.
Fuck the world.

Miss Alice Bridge era salita sulla nave, i suoi tre bauli, con tutta la vita dentro, erano già stati caricati e mancavano ormai una decina di minuti perché la nave si rimettesse in moto. Lei continuava a scrutare l’orizzonte, il molo quasi deserto sotto il sole cocente del pomeriggio. Guarda e guarda ancora, cosa s’aspetta? Nulla in realtà. Ma quelle poche righe che gli ha lasciato erano dovute, erano il minimo che potesse fare, che potesse dire. Sapeva che non l’avrebbe mai rivisto, ma quello non era importante. Era invece fondamentale che lui sapesse come l’aveva fatta sentire.
«Miss Bridge, stiamo per salpare, non vuole entrare in cabina?» le chiede un marinaio, uno dei suoi studenti, sapendo che dopo ogni tappa lei si ritirava in cabina, perché la partenza della nave col suo moto ondulatorio la disturbava. «Resto ancora qualche istante, grazie.»
Sono gli istanti a formare l’eternità. E basta un istante a cambiare tutto. Come l’istante in cui Eddie Wolf è arrivato correndo sul pontile e Alice Bridge non ci ha pensato neanche due volte a tuffarsi dal ponte della nave e a tornare a riva.
Uno davanti all’altra e sta volta quel bacio così desiderato nessuno può impedirlo, la voce del capitano che la chiama dalla nave è un eco lontano e confuso. Lei lo guarda e si perde, lui non riesce più ad aspettare. La bacia. Finalmente. Con passione, le lingue si toccano, giocano, si sfiorano le labbra e da ogni terminazione nervosa partono brividi, saette. Un bacio interminabile. Un istante, da eternità. E lì restano, la signorina Bridge e il signor Wolf, sull’isola di Headsea senza un soldo, senza nulla che possa garantire loro un futuro, ma con il cuore gonfio di emozioni e di una gioia che non credevano avrebbero mai più provato nelle loro vite, ma va bene così perché alla fine dei conti, oltre a questo nothing else matters.
 

martedì 26 marzo 2013

Scene di cameratismo pendolaresco

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No, no, se scendo a Piramide il treno delle 18.33 non riesco a prenderlo, nemmeno se volo. Arrivo a Tiburtina. 
Scelta coraggiosa, di certo, fare garbatella-tiburtina in metro, all'ora di punta, ma la possibilità di prenderlo, quel treno, basta per rischiare. Così faccio venti minuti di viaggio tentando di leggere il capitolo sui patogeni esterni del mio libro di medicina cinese for dummies con gli occhi dei vicini di posizione puntati addosso. Mi pare di sentire quello che pensano. Pensano che sono strana. Pensano che non sembro asiatica, ma potrei essere mezzo sangue. Si chiedono se è cinese o giapponese, ma forse è coreano.
Insomma, arrivo a Tiburtina. Ore 18.40. Ho cinque minuti scarsi per raggiungere il binario 24. 
Per chi di voi non è mai stato alla stazione Tiburtina, mi sembra d'obbligo dire che il binario 24 è agli antipodi dell'uscita della metro e il pavimento nuovo è plasticoso e quando piove si crea una specie di strato melmoso marroncino che se hai fatto l'errore di mettere gli stivali con la suola è di una pericolosità indicibile. 
Cammino a passo veloce, ma sto attenta a non mettere troppo peso sulla pianta del piede, più sul tallone perchè il tacco è di gomma, così non arrivo al binario in scivolata.
Binario 24
Gremito. A dir poco. La cosa puzza. Sono le sette, è vero, ora di punta. Ma io so riconoscere, da brava pendolare, un binario da treno-precedente-inspiegabilmente-soprresso quando ne vedo uno e questo affollamento è chiaro come il sole. Il treno ha cinque minuti di ritardo, scommetto che diventeranno dieci in poco tempo. Così succede.
Arriva, il biscione verde, e tutti si preparano alla lotta. Sarà all'ultimo sangue. Io sono pronta a tirarmi indietro, non ho intenzione di perdere una scarpa, la borsa o l'ombrello. Se serve aspetto il treno dopo, non devo correre da nessuna parte, ho finito di fare le cose della giornata.
Sono fortunata, o forse no, perchè la porta si ferma esattamente davanti a me. Tutti si ammassano, in pochi secondi hai persone ovunque, ti circondano. Lasciano uno spazio talmente piccolo che chi deve scendere lo fa a fatica... non capisco. Ma perchè diamine non potete capire che se non lasciate scendere sul treno non ci sarà mai posto per salire? Perchè è così difficile da capire?
E così ecco, tutti salgono, ti spingono e ti incastrano. Prendi la scala, speri in un pezzetto di aria respirabile al piano di sopra, lo trovi. L'insenatura alla fine della scala, ti ci infili come se fosse un piccolo rifugio. Cerchi di non dare gomitate. Non c'è aria per respirare. Togli la sciarpa, provi a slacciare il cappotto. Non ci riesci, ti arrendi. Vorresti leggere, ma aprire la chiusura lampo e prendere il libro che hai infilato nella borsa a fatica è improbabile. Quindi ti guardi intorno.

La signora anziana sale le scale a fatica, non è agile nei movimenti, ma si ostina a viaggiare in treno. La ragazza seduta vicino la scala la vede e le lascia il posto. Sarebbe facile, ma scambiarsi di posto col treno così pieno è complicato. Ci riescono ... tu prendi gli insulti della signora in piedi dietro di te perchè le hai dato una spinta involontaria. Ma che ci vuol fare, signora? Siamo sardine, non esseri umani. 
Arriva dal nulla, dopo che mi sono guadagnata un posto a sedere e sto tentando di leggere il mio libro, una signora bionda. Impetuosa. Vuole mettere a caricare il suo cellulare nella presa di corrente che è sotto ai miei piedi. Una richiesta coraggiosa, nessuno riesce a muoversi su questo maledetto treno! Un ragazzo straniero, lo riconosco dai lineamenti, è sicuramente est-europeo, probabilmente rumeno, l'aiuta. Lei vuole che il telefono sia poggiato per terra. Per un attimo, un secondo appena, mi pare quasi di stare a Taiwan. A Taiwan avrebbero fatto così senza problemi. Nessuno avrebbe avuto paura che il telefono venisse rubato. Ma in Italia non ci si fida. Eppure la signora si fida. Dice di metterlo per terra, il telefono.
Chiunque potrebbe rubarlo, in qualsiasi momento. Ma nessuno lo fa. Però la presa della corrente non funziona, il telefono non si è caricato.
"Prenda il mio, cambiamo scheda." dice il ragazzo straniero con un accento forte, un italiano stentato. Il suo è un telefono modesto, uno di quello per fare le tefonate e basta, d'altri tempi. Ma lo offre. 
"Telefoni col mio, senza che cambia scheda." Dice la ragazzina spiaccicata contro il corrimano della scala. "Ho i minuti gratis verso tutti." come se servisse sottolineare che non paga per giustificare un atto di gentilezza. La signora bionda, imponente, col mento troppo pronunciato e una risata quasi isterica, prova a chiamare il marito che, ovviamente, non risponde. "I mariti non ci sono mai quando servono" commenta e ride di nuovo. Quella risata è demoniaca. Io e il ragazzo rumeno ci scambiamo uno sguardo perplesso. La signora bionda si arrende.

Io ho un posto a sedere. La vecchina è seduta accanto a me, mi inquieta. Guarda il mio libro con fare incuriosito. Mi preparo psicologicamente alla domanda fatidica: ma che lingua è? E invece con mio immenso stupore la signora mi stupisce con gli effetti speciali! 
"Insegni ai bambini?" mi chiede. Incredibile! Di fronte a pagine completamente coperte di bei caratteri cinesi tradizionali, la signora da cosa viene colpita? Dai disegnini del mio libro di medicina cinese for dummies! Resto perplessa e borbotto un "no, questo è un libro semplificato..." non so nemmeno io cosa voglia dire, a dirla tutta, ma la signora sembra abbastanza convinta dalla mia spiegazione.

Cose strane succedono su questo treno. Come quando alzo gli occhi e si è materializzata davanti a me una faccia conosciuta. Una ragazza. Mi saluta, come se mi conoscesse bene. Io mi vergogno un po' nel rispondere al saluto...non ho idea di chi sia! La guardo e la riguardo. Ha un sorriso dolce, è carina e gentile. Ma dove diavolo ci siamo conosciute? Ragazza mora, dove ti ho già visto? Più la guardo e più la mia mente è vuota! Penso ai negozi, è una commessa? Mi ha venduto qualcosa che volevo tanto? A quanto pare no. Niente da fare. Vuoto. Poi, d'un tratto, come un flash, eccola. Sì che so chi sei, so anche il tuo nome L.! Ti conosco sei l'ex fidanzata del mio vicino di casa... ecco chi sei! Non ti riconoscevo proprio, che brutta sensazione!

La signora bionda non era ancora arresa, mi ero sbagliata. Sta per arrivare alla sua fermata. Non sa se suo marito l'aspetterà alla stazione... in effetti, il marito è occupato con l'amante, aspetta la telefonata per salutarla e correre alla stazione, dopo essersi lavato i denti e sistemato i capelli, perchè la signora bionda e è attenta, si accorgerebbe di un sapore diverso nella sua bocca. Insiste a baciarlo con la lingua anche alla loro età, anche se sono sposati da vent'anni. Non vuole sentire ragioni. Quindi lui per sicurezza si lava i denti accuratamente. Mangia anche una gomma, la sicurezza non è mai troppa.
Insomma, il ragazzo rumeno rinnova l'offerta. Cambiano la scheda. Hanno i minuti contati. La signora riesce a parlare con suo marito che le assicura che sta andando in stazione e l'aspetta lì. La signora sorride e ringrazia ripetutamente il giovane straniero che è stato così gentile.

Finalmente, "siamo in arrivo a Poggio Mirteto. We're now arriving in Poggio Mirteto..."

Anche oggi, sopravvissuta.