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Si sentiva come un quadro appena
caduto.
La storia del quadro l’aveva
sempre interessato: un quadro passa tutta la sua esistenza appeso al muro e poi
un giorno, tutto insieme cade giù, il vetro si spezza, se va bene la cornice
rimane intatta, sennò bisogna rifarla da capo.
Ecco, lui si sentiva esattamente
così, come un quadro caduto.
Senza energie, senza forza, con
gli occhi pesanti e la bocca impastata, con il cuore che batteva a fatica e con
i crampi dalla bocca dello stomaco in giù. Si sentiva così sfinito che l’unica
cosa che avrebbe voluto sarebbe stata andarsene a letto e rimanerci. Sparire
dentro il suo letto. Provare a far finta di non esistere, che fosse tutto uno
scherzo, che niente di tutto quello che stava realmente succedendo fosse reale.
Magari sì, se lo stava solo
sognando.
Magari invece di svegliarsi il
giorno dopo e dover trovare le parole giuste -quelle che non esistono, non dopo
nove anni, non ci sono parole giuste dopo nove anni – si sarebbe svegliato col
cuore in tumulto, come un tempo, si sarebbe svegliato con la voglia di vederla,
di parlarle e di raccontarle della sua vita, si sarebbe svegliato e lei sarebbe
stata di nuovo il suo primo e ultimo pensiero nella vita. Si sarebbe svegliato
e tutto sarebbe stato come sempre. E lei sarebbe arrivata, dopo lavoro, da lui
e lui sarebbe corso, fiato corto, ad aprirle la porta. E baciarla avrebbe avuto
di nuovo quel gusto, quel sapore, quello di una volta. Quello di quando la
baciava di soppiatto, prima che sua madre arrivasse a prenderla alla stazione
dei bus, quello di quando si era innamorato di lei.
Ma sapeva che non era un sogno.
Era la realtà. La realtà era
quella del quadro che cade, dopo nove anni con un tonfo pesante e silenzioso.
Che rimbomba solo nella testa di chi lo sente, di chi lo provoca e di chi lo
vede cadere.
E lui, Alberto, il giorno dopo avrebbe dovuto trovare le parole
per chiudere una storia che forse aveva portato avanti per troppo tempo, che
aveva trascinato per paura, per comodità forse o forse per rispetto, per
speranza, perché sperava con tutto se stesso che le cose potessero andare
diversamente, che potesse salvare tutto che le strade potessero, in qualche
modo aggiustarsi. Le aveva provate tutte. Ma non c’era stato verso. Due anni ci
aveva messo per rendersi conto di quello che stava succedendo, due anni interi.
Piano piano, un giorno dietro l’altro, un po’ alla volta, s’era disinnamorato
nel modo più impensabile, nel modo peggiore possibile.
Se avesse potuto sarebbe
sprofondato. Più si rendeva conto di quante cose avrebbe fatto, più sentiva la
sua mano sinistra senza anello intorno leggera, più pensava a tutto quello che
aveva scansato, non considerato a sufficienza perché c’era lei, più si sentiva
morire. Come era potuto succedere? Come aveva fatto il suo grande amore a
trasformarsi in un ostacolo, in una monotonia che lo aveva spento nel profondo?
Non lo sapeva, non ne aveva idea. Non riusciva a darsi spiegazioni e ora
avrebbe dovuto darne al mondo intero. Non poteva farcela. Quegli sguardi, quelle
parole, quelle dei suoi familiari, delle persone più vicine a lui lo
distruggevano, lo massacravano quasi!
Ma d’altronde, non c’erano
alternative. Lui doveva vivere, non poteva continuare a sopravvivere. Doveva
sentirsi vivo dentro, nel profondo. Ecco tutto.
Era tutto lì. Il desiderio di
rivivere in pieno la sua vita, di sentirsi bene e di voler uscire da quella
vita che gli andava sempre più stretta. Doveva respirare. Sentire i polmoni
riempirsi d’aria e respirare, ecco quello di cui aveva bisogno.
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